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Excursus storico sulla FLESSIBILITA'

PARTE PRIMA
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di Valentina Da Rold
I tempi della prestazione lavorativa, insieme con la loro remunerazione,  rappresentano da sempre il motivo più significativo di conflitto tra i lavoratori e il padronato.
La celebrazione del 1° Maggio nacque proprio dalla volontà di ricordare gli operai assassinati a Chicago nel 1886 mentre manifestavano per rivendicare le 8 ore giornaliere.
Verso la fine degli anni ’50 in alcune grandi aziende italiane (FIAT e Olivetti, per esempio) importanti accordi di riduzione dell’orario aprirono la strada alle 40 ore di orario settimanale, con il sabato libero.
 
 
I modelli di orario nella fabbrica fordista
Negli anni ‘70 gli orari di lavoro hanno un carattere di forte uniformità e rigidità, per rispondere a una produzione facilmente prevedibile, in un mercato che non presenta ancora necessità di risposte immediate ai picchi della domanda.
 
Mentre sul piano legislativo si è sempre fermi al Regio Decreto del 1923 (48 ore di lavoro), sul piano sindacale vengono ottenuti sensibili miglioramenti sull’orario di lavoro in tutti i CCNL, con la settimana a 40 o 39 ore e le quattro settimane di ferie, con possibilità di ulteriori riduzioni nella contrattazione aziendale.
 
Negli anni ’80 il modello fordista comincia ad entrare in crisi per effetto di una competizione mondiale sempre più serrata, sfrenata e spietata.
 
Il ricorso alla CIG e agli straordinari determina un’oscillazione di fatto dell’orario di lavoro su base annua, che nel 1993 nel settore metalmeccanico tocca il 14%, corrispondente a 6 settimane di lavoro pro capite, rispettivamente in più o in meno rispetto al normale.
 
 
Dal modello fordista alla stagione della flessibilità
Si afferma il mito della produttività del modello giapponese, in cui il tempo non viene più considerato un vincolo per l’organizzazione del lavoro e la produzione, bensì il mezzo su cui far leva per rispondere più velocemente, "just in time" ("appena in tempo"!), alle sollecitazioni produttive del mercato e per limitare l'accumularsi delle scorte.
 
I modelli di orario iniziano ad uscire dallo schema standard. E’ in questo periodo, a cavallo tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, che il dibattito politico e "culturale" sui tempi (con i padroni all'offensiva e il movimento dei lavoratori sotto attacco e costretto a difendere l'occupazione) produce i risultati più significativi.
 
ACCORDO DEL 22 GENNAIO 1983. PROTOCOLLO GLOBALE D'INTESA SUL COSTO DEL LAVORO che, al punto 11, recita: “Al fine di realizzare regimi di orari di lavoro più corrispondenti alle esigenze produttive, le parti concorderanno, nei rinnovi di categoria, clausole che consentano un più intenso utilizzo degli impianti, un recupero della prestazione effettiva rispetto all’orario contrattuale, nonché i criteri per una maggiore flessibilità di orari da porre in essere in sede aziendale.”
 
Lo sviluppo di nuove tecnologie riduce sempre di più i tempi di produzione e il numero delle persone necessarie al ciclo produttivo, incrementando sensibilmente la produttività e richiedendo sempre meno occupazione.
Si viene perciò sempre più affermando una prassi che non si limita alla riduzione della giornata lavorativa, poiché invece punta a ridurre o ad allungare l’orario a seconda delle mutevoli esigenze produttive: è quel che ci hanno abituato a chiamare "flessibilità", positiva o negativa che sia, in termini di tempo impegnato nel lavoro.
 
Nei CCNL più importanti, e in particolare in quello dei tessili, fin dalle tornate contrattuali degli anni '80 sono previsti sistemi di flessibilità di orario per rispondere al carattere stagionale della produzione, mediante il superamento della rigidità dell’orario contrattuale settimanale, con il recupero, entro un certo periodo, del tempo di lavoro svolto in più o in meno.


Dalla riduzione dell’orario all’esasperazione della flessibilità
La Legge 196 del 1997, il così detto Pacchetto Treu, ha portato l’orario normale a 40 ore settimanali, abbassando il limite massimo a 52 ore e demandando alla contrattazione sindacale la possibilità di definire modalità di orari flessibili su base annua, con media di 40 ore settimanali.
 
Oltre a questi strumenti di flessibilità interna, negli ultimi anni si è assistito allo svilupparsi di nuove forme di rapporto di lavoro come il tempo determinato, l’interinale e il parasubordinato, senza contare il carattere temporaneo dei contratti di formazione lavoro e dell’apprendistato, con i quali il lavoratore è inevitabilmente indotto ad aumentare le ore di prestazione e, per consolidare il rapporto di lavoro, si rende disponibile a obbedire quando l'azienda lo richieda, vivendo spesso come vincoli di rigidità a senso unico, e a proprio svantaggio, le norme contrattuali.
 
E’ evidente che i bisogni di flessibilità e di tempo libero del lavoratore sempre meno si conciliano con quelli dell’azienda.
 
Sarebbe interessante sfidare i sostenitori della necessità di ulteriori flessibilità (vedi Anfao) ad avanzare proposte molto concrete sul fondamento di inequivoche e dimostrate necessità, anziché avventurarsi in continue campagne generiche e strumentali.

marzo 2010

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